(Il Fatto Quotidiano. Luisiana Gaita).
Le maggiori banche dei Paesi del G7 sono responsabili di più emissioni di gas serra di Italia, Germania, Regno Unito e Francia messe insieme. Ammontano a 2,7 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, contro i 2 miliardi di tonnellate di CO2 dei quattro paesi presi in considerazione. Alla vigilia del vertice del G7 Finanze di Stresa, ReCommon lancia il suo rapporto “Senza controllo, le emissioni di CO2 delle più grandi banche mondiali”. E lo fa pochi giorni dopo aver presentato un esposto alla Procura regionale del Lazio della Corte dei Conti sull’operato di Sace, l’assicuratore di Stato italiano controllato dal ministero dell’Economia e delle Finanze, a cui la ong contesta “una possibile non corretta gestione delle risorse pubbliche e una mancata tutela degli interessi dei cittadini italiani” in relazione alle garanzie emesse negli ultimi anni nei settori più a rischio come petrolio e gas, petrolchimico e crocieristico.
“Se le più importanti banche del Pianeta fossero un Paese, sarebbero tra i primi inquinatori globali. I ministri delle Finanze del G7 e le autorità di vigilanza finanziaria – commenta Daniela Finamore di ReCommon, co-autrice del report – devono porre un freno al settore finanziario e fermare il finanziamento dei combustibili fossili, che rappresentano il fattore chiave della crisi climatica, dell’aumento delle bollette energetiche e del continuo peggioramento degli eventi estremi che costringono le persone di tutto il mondo ad abbandonare le proprie case”.
La trasparenza (che manca) e le emissioni dei settori ad alta intensità di CO2 – “Il dato, ricavato sulla base delle informazioni disponibili alla fine del 2022 – spiega il rapporto – è calcolato ampiamente per difetto a causa della mancanza di trasparenza e delle scarse pratiche di divulgazione da parte degli istituti di credito”. Sebbene un numero crescente di banche fornisca i dati relativi al clima, la maggior parte di esse divulga solo parametri di intensità e non rende note le emissioni assolute. Solo 12 delle banche esaminate hanno divulgato i dati sulle emissioni assolute per più di un settore. “Una riduzione dell’intensità di carbonio dovuta all’aumento dei finanziamenti per le attività non fossili – spiega ReCommon – non implica necessariamente una riduzione delle emissioni assolute di gas serra, che invece richiede una tempestiva eliminazione del sostegno finanziario ai combustibili fossili”.
Secondo la ong, la mancanza di un sistema coerente di informazioni sull’impatto climatico e finanziario impedisce ai ricercatori di quantificare l’esposizione delle banche alle industrie ad alta intensità di carbonio. Al netto di queste criticità, un altro dato emerge chiaramente: nonostante rappresentino solo il 6% dell’esposizione totale dei prestiti analizzati nel rapporto, i settori ad alta intensità di carbonio quali l’agricoltura, il petrolio e il gas, l’industria mineraria e i servizi pubblici rappresentano oltre la metà delle emissioni totali finanziate. La stima, tra l’altro, non prende in considerazione le emissioni relative ai servizi di consulenza e sottoscrizione di titoli, alla gestione patrimoniale o ad altre attività di investimento da parte delle banche.
Il ruolo di Banca Intesa – Tra i soggetti più coinvolti nel business fossile non poteva mancare la più importante banca italiana, Intesa Sanpaolo, che dall’Accordo di Parigi ad oggi ha sostenuto il settore con 81,6 miliardi di dollari. Solo nel 2023, si parla di 8,6 miliardi di dollari di investimenti e 7,5 miliardi di dollari di finanziamenti. “Esemplificativo che Intesa Sanpaolo sia presente, tramite un finanziamento di 160 milioni di dollari della controllata Ubi Banca, nel controverso progetto di Eni di estrazione di gas offshore in Mozambico Coral South Lng” sottolinea ReCommon, ricordando che l’istituto di credito torinese non ha chiarito se sia coinvolta anche negli altri progetti Rovuma e Coral North Lng. “Di certo è molto esposta sul fronte del gas naturale liquefatto Usa nell’area del Golfo del Messico – aggiunge la ong – con 4,8 miliardi di dollari di finanziamenti concessi dal 2016 a oggi”. Nel luglio del 2023, Intesa Sanpaolo ha accordato un prestito di ben 1,08 miliardi di dollari per la realizzazione del mega terminal di export di gas naturale liquefatto texano Rio Grande Lng.
L’esposto sull’operato di Sace – Proprio in questi giorni, tra l’altro, ReCommon ha presentato un esposto alla Procura regionale del Lazio della Corte dei Conti sull’operato di Sace che, con le sue garanzie nei settori del petrolio e del gas, ma anche del petrolchimico e crocieristico. In Mozambico, Sace ha garantito il progetto Coral South Flng di Eni con 700 milioni di euro e Mozambique Lng con 950 milioni di euro, per cui l’agenzia dovrebbe coprire i prestiti per le operazioni di Saipem, tra cui quello di Cassa Depositi e Prestiti del valore di 650 milioni di euro. Quest’ultima operazione era stata valutata negativamente dalla stessa Corte dei Conti nel marzo del 2021, poiché concorreva al superamento dei limiti di portata degli impegni a carico dello Stato. “Se le cose vanno male – spiega la ong – Sace rimborsa con soldi pubblici le aziende oppure le banche che hanno prestato soldi alle aziende per i loro investimenti esteri”.
La stessa Corte dei Conti, attraverso la sua Sezione del Controllo sugli Enti, negli ultimi tre anni ha segnalato la necessità di provvedere a una maggiore diversificazione settoriale. Fra il 2016, anno di entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima, e il 2023, Sace ha emesso garanzie per il settore oil&gas pari a 20 miliardi di euro, di cui 4,95 lo scorso anno, che rappresentano una fetta importante dei cosiddetti sussidi ambientalmente dannosi italiani. A novembre 2021, durante la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite tenutasi a Glasgow, l’Italia si era impegnata a porre fine al nuovo sostegno pubblico diretto al settore internazionale dell’energia da combustibili fossili entro la fine del 2022, sottoscrivendo quella che è passata alle cronache come la ‘Dichiarazione di Glasgow’. “La nuova policy al riguardo – scrive ReCommon – emessa da Sace solo nel 2023, quindi in estremo ritardo, consente all’Italia di sostenere con soldi pubblici progetti fossili almeno fino al 2028”.
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